find the path

martedì 19 luglio 2011

La passione e l'estasi (dell'arte). Il cinema di Slawomir Milewski


Un flusso di immagini ci invade. Conoscenza per creare arte, quella che Slawomir Milewski, regista polacco classe 1979, ridefinisce in controsensi e apologhi (a)morali. A partire da Ecstasy of St. Agnes, cortometraggio realizzato nel 2010. Come un Guy Maddin depurato da qualsiasi spinta fantastica, lo schermo si riempie di un bianco esplosivo. Corpi che si muovono su sfondi distanti e sfuggenti: il mistero e la complessa stranezza dell'animale uomo. La sessualità è una necessità giocosa utile esibita (the woman teacher of Polish has big boobs), forme geometriche improvvise tentano di dare un senso a quel caos controllato che con enorme presunzione definiamo vita. Tuttavia the picture is impossibile...

 

Poor People Must Die (2011) è diviso in tre capitoli. Flying to Saturn VI alterna in un montaggio frenetico e bizzarro convivialità sociali, rituali religiosi, pornografia oscena, storia della Polonia. Il bianco e nero livido e la pellicola sgranata sono accessori ad una visione sconvolgente, pezzi di mondo che si uniscono e si scontrano sullo sfondo di città distrutte dalla modernità. Forniture e pezzi d'assemblaggio del grottesco, come una cantante resa muta da un sonoro mancante o un corpo che si rotola all'infinito in un letto, senza alcun senso. L'accoppiamento è mancato, la visione è monca per natura. Deformata, allucinata, come la chirurgia estetica impone al nostro vissuto. Cinema dell'arte dirà qualcuno. Non sense gratuito? Probabile. Il secondo capitolo Literacy è una perversione bella e buona. Sequenza interminabile di una scopata da dietro con ralenti soffocante, così decontestualizzata dalla realtà naturale (del porno) da assumere connotati quasi metafisici. A chiudere il cerchio arriva Saturn VI: Members Only, in cui il primo piano di una capra assume più significato di qualsiasi essere umano.
In Pogo (2011) la cosiddetta new media art viene fatta a brandelli. Calpestare le convenzioni è l'unico metodo possibile. Perché in fondo, sembra dirci Slawomir, l'arte non è altro che una colossale presa per il culo.

martedì 12 luglio 2011

Cinematic music for cinematic people (Part V): Contemporary Noise Sextet - Ghostwriter's Joke


Musica e cinema, cinema e musica. Uno dei migliori dischi del 2011 arriva dalla Polonia e porta inciso il nome di Kuba Kapsa. Pianista ispirato dalla tradizione cinedelica del tempo che fu, ha fondato il Contemporary Noise Quintet con il fratello batterista Bartek. Pig Inside the Gentleman (2006) e Theatre Play Music (2008) sono stati i primi due episodi della discografia, seguiti dall'allargamento dell'ensemble che diventa Contemporary Noise Sextet con Unaffected Thought Flow (2008) e November Note (2010). Ghostwriter's Joke possiede tutte le caratteristiche per convincere chi ama il buon cinema e la buona musica: uno stile elegante e al tempo stesso energico, brani strumentali che musicano un film che non c'è, una ispirazione infinita che lambisce la psichedelia colorata e "inoffensiva" degli anni Sessanta. Un mélange di influenze e pulsioni, che vanno da Cinematic Orchestra e Esbjörn Svensson Trio alle migliori esperienze jazz rock e fusion dei Seventies, su tutti Billy Cobham, Stanley Clarke e Mahavishnu Orchestra (e perché no, con un po' di orgoglio italiano, Perigeo, Area e Napoli Centrale).


Dall'introduzione in crescendo di Walk With Marylin (è vero che gli uomini preferiscono le bionde?) si passa all'impatto free di Morning Ballet, pura ascesa del groove da brass esaltata da soli di chitarra isterici e ficcanti. Is That Revolution Sad? è trainata da nervose note di piano che lanciano le trame fitte dei fiati: sembra di rivivere gli score di Piero Umiliani, Armando Trovajoli e Franco Micalizzi in una insolita (e piuttosto inconsueta) variante ethio esteuropea. Curioso. E ammaliante come non mai. Old Typewriter odora di inchiostro e sigarette, puro jazz da stanza fumosa che fa il paio con Chasing Rita («Tutti gli uomini si innamorano di Gilda, ma si svegliano la mattina dopo con Rita»), groove che sale al cielo e fughe scattanti di tromba e sax replicate dalle sei corde di Kamil Pater. Norman's Mother si insinua nella testa come il tarlo che divora il buon Bates ed esplode in una sezione di fiati che alterna dilatazioni psichedeliche e stratificazioni dissonanti: per l'unica volta usare il termine noise assume senso. Il finale è affidato a Kill the Seagull, Now!, brano scritto in origine per la pièce "Il gabbiano" di Anton Chekhov diretta da Agnieszka Lipiec-Wróblewska. Jazz rock orchestrale, di ampio respiro, sognante e meraviglioso.

Di amletico c'è poco o nulla nella musica del Contemporary Noise Sextet. Kuba Kapsa e soci hanno classe da vendere e la certezza di una coolness autentica. Un plauso alla Denovali Records perché si dimostra ancora una volta etichetta poliedrica e di grande qualità.

lunedì 4 luglio 2011

OFF TOPIC Quando il cerchio si chiude e anche le date sembrano giocare con gli eventi


Ricevo l'attenta analisi dell'amico e sodale Giuseppe De Cicco e pubblico.

27 giugno 2011, a 31 anni da Ustica, re Giorgio Napolitano butta la sua solita pietra e probabilmente nasconde la mano che fino a non moltissimi anni fa svettava chiusa in pugno verso il sol dell'avvenir, chiedendo che si dipanino tutte le ombre sul caso Ustica...
27 giugno 2011, L'Aja proclama Gheddafi criminale della peggior specie, macchiatosi di colpe gravissime verso la strana, pazza, razza uomo.
27 giugno 2011, con il mandato di arresto internazionale si chiude la possibilità per il leader libico di scappare, e forse l'ultima unica possibilità di uscire "illeso" da una situazione ormai degenerata, e godersi la sanguinolenta pensione e con questo ultimo tassello aggiuntosi sempre il 27 di giugno del 2011, l'Occidente si appresta a chiudere i conti con quello che forse è l'africano più fastidioso e pericoloso dai tempi di Annibale; perché alla luce dei fatti vien fuori che...
Nel 1969 la Libia e Gheddafi compiono la loro rivoluzione. La monarchia dalle forte tinte filo-occidentali viene spazzata via e i primi a pagarne le conseguenze sono proprio le potenze straniere, soprattutto francesi, inglesi e americane. Non certo dei bracaloni buontemponi, insieme all'indimenticata indimenticabile CCCP le tre potenze militari più bellicose dell'Occidente e quindi... Nazionalizzazione di banche e pozzi petroliferi, che per volontà della monarchia erano nella quasi totole dipsonibilità dello straniero fino a quel momento; chiusura immediata di tutte le basi delle potenze occidentali sul suolo libico, inglesi e americane nello specifico.


Alla fine degli anni Settanta la tensione internazionale nei confronti della Libia è altissima. Il colonnello lavora per la creazione di uno stato panarabo che unisca i popoli arabi, la politica internazionale si basa su una forte componente anticolonialista e antisraeliana. Secondo il giornalista Andrea Purgatori, uno dei massimi esperti del caso Ustica, il colonnello Gheddafi in quegli anni è il nemico pubblico numero uno degli americani. Per dare un'idea, sempre Purgatori sostiene che «il presidente degli Stati Uniti d'America ogni mattina in quegli anni si preoccupa di quello che farà Gheddafi». Tuttavia l'autore del libretto verde non è inviso solo agli americani: i francesi lo odiano per il suo ostinato e fastidioso nonché fottutamente affascinante anticolonialismo e per  le sue pressioni e ingerenze sul governo filofrancese del Ciad. Per non parlare  delle tensioni con l'Egitto per la svolta filoamericana e le aperture al regime sionista.
Ecco, questo è lo scenario in cui, il 27 giugno del 1980, matura il fallito tentativo di eliminare il leader libico. Che in compenso costa la vita a  81 passeggeri di un volo civile, seguiti da 31 anni, 31, che sono un casino di giorni, un fottio di ore, una miriade di minuti, un universo di secondi; 31 lunghi anni di lacrime rabbia e dolore per una strage, ancora oggi, dopo 31 infiniti anni, senza colpevoli senza giustizia e senza neanche la consolazione di una verità storico-istituzionale. Punto. Purtroppo.
Volo pindarico, parlando di Cirenaica mai fu più azzeccato forse; e allora pindaricamene voliamo al 2003 sperando di non aver già ammazzato di noia. 2003: cadono le sanzioni internazionali, tutto il mondo guarda alla Libia come un enorme caldo desertico ricchissimo albero della cuccagna, le più grandi società per l'energia, sopratutto quelle legate al petrolio, ci si fiondano leccandosi i folti baffi da petroliere texano ma ancora il colonnello è lì a rompere i coglioni. La Libia assume una politica sullo sfruttamento delle immense risorse petrolifere che non ha mai adottato nessun altro stato al mondo. Un articolo del Wall Street Journal documenta come, quando è venuto meno l'embargo nel 2003, tutti quelli che sapevano come scavare un pozzo per estrarre petrolio si sono fiondati sull'ex colonia italiana con grandi speranze, rimanendo al fine delusi - dice il Wall Street Journal - dal fatto che le autorità libiche li avessero messi in forte concorrenza fra di loro, una delle leggi sane del libero mercato - a detta dei liberi mercanti -, strappando quote per l'usufrutto dei pozzi pari al 90% del ricavato. Il che, commenta l'ex direttore della ConocoPhillips (compagnia petrocacadollari statunitense), ci mette davanti ad un sistema che pone i termini più duri a livello mondiale per le compagnie petrolifere, obbligando inoltre le suddette società ad assumere, per la maggiore, personale libico anche ai livelli dirigenziali.


Se siete ancora svegli e se vi documentate in rete sopratutto grazie a giornalisti come Manlio Binucci e Maurizio Torrealta, quello che rappresenta più di ogni altro il sigillo alla condanna a morte e la colpa più grave di uno dei personaggi forse più megalomani della storia (ma anche uno dei più importanti per il futuro del continente africano), è stato il tentativo di staccare una buona parte dell'Africa dal giogo occidentale. Clonando, e rendendoli responsabili solo davanti all'Unione degli stati Africani, quegli stessi organi che ad oggi permettono alle "grandi" nazioni della terra di avanzare pretese e incidere nelle scelte degli ancora assoggettati ex stati coloniali. Ovvero. Nel corso degli anni, per precisa volontà di Gheddafi, la Libia ha portato avanti quella che è conosciuta come la diplomazia dei fondi sovrani: massicci investimenti in diversi parti del mondo pari ad un ammontare che supera i 150 miliardi di dollari. Signori (per rendere tutto così serio), si parla di investimenti che superano i 150 miliardi di dollari. Per dare un'idea, per salvare la Grecia (e quindi l'Europa - il mercato unico e la paura di non farne parte meriterebbero un discorso a parte, perché in ultima analisi sono le paure che leggittimano i governi), si stima servano 110 miliardi di Euro, che nessuno naturalmente ha e che verranno elargiti pian piano. Ecco, la Libia investe 115 miliardi in fondi sparsi per i mercati di mezzo mondo; e noi italiani ne sappiamo qualcosa, vedi Fiat (azioni comprate al doppio del valore di mercato), vedi Unicredit. In particolare, una parte molto consistente è stata investita in 25 stati tutti apparteneti alla fascia sub sahariana; ai soldi libici si deve il primo lancio di un satellite tutto africano per le telecomunicazioni che permette a gli stati che lo usano di risparmiare centinaia di milioni di dollari l'anno sulle grandi reti internazionali; ma sopratutto la Libia ha fatto pressioni sulla Lega degli Stati Africani affinchè si dotasse di meccanismi finanziari simili a quelli creati dall'Occidente. Ovvero la Banca Africana di Investimento con sede a Tripoli, la Banca Centrale Africana con sede in Nigeria e il Fondo Monetario Africano con sede in Camerun. Il tutto atto a creare una zona indipendente dagli interessi e dalle pressioni occidentali e cinesi, in modo da liberare il continente dal giogo del Fondo Monetario Internazionale, dalla politica delle privatizzazioni e dal ricatto esercitato con il debito degli stati africani nei confronti di quelli occidentali. Forme embrionali ma incredibilmente concrete per far venir meno quelli che, se analizzati, per citare le parole del giornalista Manilo Dinucci sono strumenti di dominio.
Gheddafi dittatore, Gheddafi liberatore, ai posteri l'ardua... Ma rimane sempre valido il detto secondo il quale «l'unico modo per difendersi dal mondo è conoscerlo bene».
Allah Akbar… ma i soldi lo sono molto di più!

Il grande lavoro di indagine giornalistica a cura di Maurizio Torrealta, Guerra in Libia, chi ci guadagna




lunedì 27 giugno 2011

Cinematic music for cinematic people (Part IV): Ex - Abuse


Ex è la quintessenza del rock cinemadelico. Ordine e armonia distrutti da scosse elettriche. La forma strumentale che si (dis)fa fiera poetica. Il nuovo disco Abuse (quarto della serie, scaricabile gratuitamente dal sito del gruppo, come i precedenti) è un'autentica avventura. Abuso, possesso, lotta. Un album che si dipana come un fiume in piena, un arrembaggio acido che in Italia ha pochi eguali. Viene piuttosto da pensare alle esperienze free form dei vari Bevis Frond, Kawabata Makoto, Gary Arce. Arpeggi melanconici, giri di chitarra onirici, ritmiche ora delicate ora impetuose, riff ipnotici e inzuppati di mescalina. Nel rispetto del sacro motto: less is more. Abuse segna un netto passo in avanti nella definizione del suono. Quello che inizialmente era un "semplice" heavy psych o acid rock diventa altro. Una mutazione che passa dalla musica cinematica al desert sound, senza aver paura di "sporcarsi" con melodie malinconiche ed intense. Pier Paolo Pasolini, Lucio Fulci, Elio Petri, Gian Maria Volontè e Ugo Tognazzi sono i numi tutaleri. Perché l'opera è costellata da samples e citazioni che imbevono le nove tracce dello spirito critico e militante che il miglior cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta ha lasciato in eredità.


Velvet & Latex e Capital Desert sono i primi due tasselli di un percorso che inizia luminoso, seppure sommesso e distante. Da God's Spirit i toni si fanno oscuri, minacciosi. L'abuso religioso apre qualche spiraglio di luce, pur sempre da tramonto. Nella title track la divisa blocca e cavalca le parole di Orazio Orlando in La proprietà non è più un furto («Mi approprio di parti più o meno importanti dell'esistenza altrui, così mi consumo nel pessimismo e mi consolo nell'egoismo dei miei privilegi, primo fra tutti la libertà di arrestare chi voglio. Arrestare è bellissimo...»). La liberazione è un riff a dir poco catacombale, soffocante, eterno. I Black Sabbath in chiave massimalista. Se Good Woman penetra sottopelle nell'intimità, nei pensieri profondi, Into You segna la frattura definitiva, che Change's Blues dilata in un vortice che si sovrappone strano dopo strato. Il finale con Wandering Mountain trascina lì dove l'impossibile diventa realtà e all'orizzonte il quotidiano si tramuta in fantasia.

E allora io penso questo... Che in un regime democratico, dobbiamo rimpiangere il cimema che fu e auspicare la psichedelia al potere.
Per ascoltare il disco e lasciarsi ammaliare dalla poster art lisergica di Ex Lab, basta cliccare www.exlab.altervista.org

venerdì 24 giugno 2011

And the winner is... El premio


Argentina, un tempo indefinito e un luogo indeterminato. Unità che si manifestano poco a poco, così come lentamente si entra nelle vite di Lucía e Cecilia, madre e figlia. La prima è stravolta, quasi allucinata. La seconda ha soltanto sette anni e si comporta esattamente come una bambina di quell'età: gioca, ride, scherza, all'improssivo si fa seria. Le due vivono in una baracca su una spiaggia dove il mare è cupo, minaccioso. San Clemente del Tuyù è un antro oscuro. Sono fuggite. Sono braccate, inseguite. In attesa di un uomo che non si sa quando, se ritornerà. Nella memoria di un cugino morto mentra suonava il pianoforte. Cercano tranquillità, un mare di tranquillità. Una piccola oasi che sembra impossibile in un tempo e in un mondo come quello. Argentina 1976. Per Cecilia la pace (la pacificazione) è rappresentata dalla scuola. È lì che incontra l'amica Silvia, è lì che scopre di avere un grande talento per la scrittura e la lettura. Ed è proprio scrivendo e leggendo che la maestra la sceglie come rappresentante del piccolo istituto per partecipare al concorso bandito dal glorioso e valoroso esercito per celebrare la nascita di una nuova nazione. Cecilia vincerà e vorrà ritirare a tutti i costi l'ambito premio. Anche in errori del genere imparerà a crescere e a saper aspettare.


El premio (The Prize) è l'opera prima di Paula Markovitch, scrittrice e sceneggiatrice di origine argentina, film presentato in concorso alla Berlinale 2011 dove ha ottenuto l'Orso d'Argento per il miglior contributo artistico a Wojciech Staron e Barbara Enriquez. Un'opera che seduce con lentezza. E lo fa con grande semplicità: pochi movimenti di macchina, stacchi rapidi di montaggio, lunghe pause, una  fotografia livida che fa apparire le meraviglie dei paesaggi uno squallido budello dove vita, morte, presente, passato, infanzia e maturità assumono connotati sinistri e opprimenti. La descrizione di una realtà tanto brutale si trasforma in un insieme di simboli che giungono alla surrealtà. Poggiando soprattutto sui corpi delle due attrici protagoniste, Paula Galinelli Hertzog e Laura Agorreca. Il motivo che ha spinto Lucía e Cecilia a scappare si palesa con il passare dei minuti. Quasi senza cause. Il merito della sceneggiatura della Markovitch è proprio quello di evitare il pamphlet, puntando su sentimenti privati, su storie singole che diventano paradigmi universali. Le risate e gli scherzi, i capricci ed i giochi, il rotolare sulla sabbia e bere felici senza pensare al futuro, diventano un paradosso di quotidianità. Le musiche di Sergio Gurrola, minimaliste e dissolte nell'aria, restano sospese come le vite delle due protagoniste. Persino la maestra elementare e il capitano dell'esercito sono descritti con particolari grotteschi: l'onicofagia e lo spaesamento vanno di pari passo. La parata militare di premiazione si risolve in un teatrino dell'assurdo. Dolci note di pianoforte spingono verso un fuoricampo che nel finale sfocia in un commovente distacco, un nuovo approdo risolto fuori fuoco.
El premio è la cruda descrizione di un degrado politico e civile che poco meno di trent'anni dopo si trasformerà nel crac economico che impone un nuovo sfascio, stavolta morale e finanziario. Paula Markovitch ha realizzato un film piccolo e necessario proprio perché ci pone dinanzi ad eventi più grandi e insieme inutili della vita.

giovedì 9 giugno 2011

Detective fantomatici e vittime abominevoli. Fantafestival 2011


«Klaatu Barada Nikto!» e passano tutti i guai. Fomula vincente per il robot Gort e per il Fantafestival di Roma, che per la trentunesima edizione ci spalanca le porte al cinema fantastico e di fantascienza. Un programma ricco, dal 9 al 19 giugno 2011 presso la Casa del Cinema e il Nuovo Cinema Aquila.

Innanzitutto un sentito omaggio al cinema fantastico comico italiano con la retrospettiva Fantaitaly: Brividi, risate e magia. Immersione divertita e divertente in quel meandro oscuro di film che tra gli anni 60 e gli 80 giocava con archetipi e stereotipi del cinema di fantascienza. Dal Renato Pozzetto di Mia moglie è una strega (1980) – Finnicella! – allo scult di Pier Francesco Pingitore Ciao marziano (1980), con un improbabile Pippo Franco alieno. Dal Lucio Fulci dissacrante in combutta con Lando Buzzanza di Cav. Costante Nicosia Demoniaco ovvero Dracula in Brianza (1975) al Diabolik iperpop di Mario Bava, griffato 1967, e via fino al capolavoro La decima vittima (1965) di Elio Petri.


Tante al solito le ghiotte anteprime, tra le quali meritano segnalazione 13 assassini del bulimico Takashi Miike, After.Life di Agnieszka Wojtowicz-Vosloo (occhio a Christina Ricci quasi sempre nuda…), Repo Men di Miguel Sapochnik e Detective Dee and the Mistery of Phantom Flame di Tsui Hark (atteso al vaglio dopo l'osceno Missing e la commedia All About Women). Con Sammo Hung a curare il comparto action e un cast che vede protagonisti Andy Lau, Carina Lau, Tony Leung Kar Fai e Li Bing Bing dovremmo dormire sonni tranquilli… O agitati?


Un occhio particolare è puntato sul cinema italiano del presente, con diverse pellicole che stimolano curiosità e interesse. In particolare i due zombie movie Bloodline di Edo Tagliavini (effetti di Sergio Stivaletti e musiche di Claudio Simonetti dovrebbero essere una garanzia) e Eaters di Luca Boni e Marco Ristori, film prodotto da Uwe Boll, il che promette adeguata "bruttezza". Suscita aspettative etiliche Bumba atomika di Michele Senesi. Focus su Stefano Bessoni (autore di Imago mortis e dell'inedito Krokodyle, presentato per l'occasione), Gabriele Albanesi (già colmo di seguaci dopo Il bosco fuori e prima di Ubaldo Terzani Horror Show) e Lorenzo Bianchini, regista di Lidrîs cuadrade di trê (2001), Custodes bestiae (2004) e Occhi (2010).


Notevoli e lodevoli infine gli omaggi ai 100 anni di Fantomas (la trilogia di André Hunebelle Fantomas minaccia il mondo, Fantomas 70 e Fantomas contro Scotland Yard) e alla stupenda Caroline "Big Breasts" Munro (Capitan Kronos - Cacciatore di vampiri di Brian Clemens e L'abominevole Dr. Phibes di Robert Fuest).
Tutti in sala al grido di «Vincent Price! Vincent Price! Vincent Price!».


Per informazioni e programma completo, basta cliccare su www.fanta-festival.it.

giovedì 2 giugno 2011

«Dovevamo farlo cadere noi il muro... Dall'altra parte!». Cirkus Columbia


Bosnia-Herzegovnia, 1991. Il muro è caduto, un mondo intero è al collasso. Divko ne approfitta e dopo un autoesilio in Germania durato vent'anni fa ritorno al proprio villaggio d'origine. Nel tempo ha finanziato il blocco anti-comunista, quindi tutto gli è dovuto. Anche riprendersi la casa dove vivono l'ex moglie Lucija e il figlio Martin ed insediarsi con la nuova compagna Azra ed il fidato gatto portafortuna Bonnie. I marchi sonanti precedono e seguono il suo arrivo. L'intero paese si mobilita, mentre i serbi iniziano ad attaccare Dubrovnik e le milizie croate non restano a guardare. Da questo assunto prende le mosse Cirkus Columbia, film di Danis Tanovic presentato alle Giornate degli Autori della Mostra di Venezia 2010, in concorso al Festival di Toronto e dal 27 maggio (2011…) nelle sale italiane distribuito da Archibald.


La Jugoslavia si sbriciola progressivamente. Allo sgretolarsi di una realità politico-sociale in ebollizione, Tanovis predilige lo spaesamento di diverse generazioni messe a confronto. La guerra è sullo sfondo, prepotente. Sta arrivando. Intanto c'è la voglia matta di Divko di tornare "uomo libero". La necessità della normalità che anima Lucija. L'incertezza di Martin, chiuso in questa morsa e spinto "soltanto" a vivere. Il riavvolgersi della memoria in un passato durato 50 anni. Il solco che Tanovic traccia tra il rimosso ed il ricordo: «Per lungo tempo il periodo prima della guerra apparteneva ad una vita che non riuscivo a ricordare. Ogni volta che cercavo di pensare alla mia vita nel periodo prima della guerra si creava nella mia testa questa lacuna. Era come se la guerra avesse coperto tutto ciò che era esistito prima. Mi sembrava che quel tempo fosse una parte della mia vita che avevo perso. Poi, di colpo, pochi anni fa, senza una ragione apparente ho cominciato a ricordare. Qualche volta un odore, qualche volta il viso di una persona che conoscevo, qualche volta una scena priva di particolare importanza.»


È in questa linea di confine che Cirkus Columbia nasce e gioca le sue migliori carte. È qui che tra dramma e commedia punta il regista, risucchiato dalla materia trattata eppure abile nel non finirci impantanato. Non tutto fila liscio, si avverte qualche forzatura nella parte centrale del film, l'ironia ed i toni grotteschi avrebbero meritato un respiro più ampio (in questo senso il cinema del croato Vinko Brešan rimane inarrivabile). E allora il film finisce per poggiare sulle rughe e l'assenza di uno stupendo (come al solito) Miki Manojlovic, sullo sguardo puro e penetrante di Mira Furlan, sulla bellezza mozzafiato (distrutta da un ridicolo doppiaggio) di Jelena Stupljanin, sugli slanci ingenui di Boris Ler (occhio alle sue magliette). E su una galleria di personaggi che divertono e commuovono, dall'ex sindaco Leon (che ha portato in casa il busto di Tito per evitare che venga sommerso dagli sputi della gente) al nuovo amministratore "democratico" Ivanda, fino al capitano dell'esercito jugoslavo Savo e alla fauna di facce da bar che popola il paese. Tra la modernità ed il passato, tra il capitalismo ed il socialismo, Martin sceglie l'America. Ma non è una presa di posizione politica. È soltanto vitalismo giovanile, cristallino, genuino. E rimane la vera ragione di Cirkus Columbia. Perché quando le bombe cominciano a cadere, non resta altro che un nuovo giro di giostra.

mercoledì 4 maggio 2011

I migliori film di fantascienza di sempre e per sempre


Curiosa classifica redatta da KinemaZOne: i migliori film di fantascienza di sempre e per sempre.

Il clima elettorale di questi giorni ha fatto venir voglia anche a noi di KinemaZone di eleggere qualcosa di importante e duraturo. Per mantenere una continuità con la politica italiana, abbiamo scelto il miglior film di fantascienza.
Così, con slancio imperituro e privi di finanziamenti pubblici, abbiamo interpellato gli amici (gli amici di amici, gli amici di amici di amici, i conoscenti) della redazione, dotati di maggior sagacia e autonomia di pensiero, ed è stato chiesto loro di segnalare i dieci film sci-fi più bellissimi di sempre, senza alcun criterio (cioé, nel senso che non sono stati indicati criteri particolari).
Difficile? Pare di no. Anzi. Quasi semplice.
Infatti ci sono giunte graduatorie pesate, elenchi piatti, liste di nove titoli, ex equo, classifiche con posizioni mancanti, buste con denaro e teste di cavalli nel letto.
Alla fine siamo riusciti ad elaborare, applicando gli stessi brogl... ehm, regole elettorali della nostra amata Repubblica, una classifica generale totale intergalattica di venti tituli (altro che l’Inter di Mou).
Le regole sulla sua stesura sono conosciute solo agli appartenenti alla loggia massonica C-3PO.
Dunque, in questa prima tornata elettorale, pubblichiamo la classifica risultante dalle preferenze del reparto neurale criticoso (blogger, critici, giornalisti, pensatori, esperti di enigmistica); nella prossima, invece, toccherà al reparto tecnico/applicativo spinto (filmaker, registi, scenografi, sceneggiatori, orsi ballerini). Nella terza il classificone-one-one, con commenti, osservazioni, menzioni e minzioni.



I magnifici 10 del reparto neurale-criticoso:
01. Blade Runner
02. 2001 - Odissea nello spazio

03. Guerre stellari
04.
Matrix
05. Metropolis
06. Ritorno al futuro
07. Aliens - Scontro finale
08. L'invasione degli ultracorpi
09. Brazil
10. Alien


Membri onorari del reparto neurale-criticoso:
:: Doc Manhattan: il suo Antro Atomico (docmanhattan.blogspot.com) è uno dei più pheeghi del web;
:: Flavio Ignelzi: scrive su Kinemazone, su Salad Days Magazine e su ogni superficie che lo permette;
:: Alessandro Zoppo: blogger che dà sfogo agli istinti cinematografici più bassi (melquiadesestrada.blogspot.com);
:: Maria Elena Napodano: una delle tastiere più pungenti (ahi!) della rete (glistregatti.wordpress.com);
:: Pasquale Alfuso: cinefilo accanito, appassionato di fantascienza, conosce a memoria tutti i film della classifica ed i tg mediaset degli ultimi 5 anni;
:: Luca Napoletano: attore cantante rock di matrice Plantiana figlio di nessun'arte, network engineer di professione, cinefilo stendhaliano, appassionato di passioni;
:: Simone Lando: impiegato di concetto, amante del post-punk, della cassata siciliana e del cinema in generale;
:: Ferdinando Carcavallo: siete su KinemaZone e non lo conoscete? Le parole chiavi che avete usato? Travel Companions? Un pazzo indietro? Due Punto Zero?;
:: Marco Spagnoli: vive nel cinema (non nel senso che dorme sulle poltrone), ne scrive e ne racconta le gesta più gloriose usando supporti come carta stampata, televisione e, naturalmente, la rete;
:: Arturo Lando: professa di Cinema all'Università di Napoli, scrive e parla parla parla... mai a sproposito;
:: Gabriele Niola: ha capito quasi tutto del cinema, della rete e dei new media. Il suo blog (sonovivoenonhopiupaura) è la realizzazione del sogno americano dei blogger cinefili;
:: Francesco Maria Landolfi: un anziano cine-blogger. Il suo www.ilcinemasecondome.net è citato in molti compendi critici e in non poche cartelle della polizia postale;
:: Alessio Giorgi: perfetto youtubber probabilmente romano, ma non ne siamo sicuri. Il suo canale è oredor(r)ore.

Guarda le classifiche personali dei magnifici giurati!

giovedì 28 aprile 2011

Cinematic music for cinematic people (Part III): Grails - Deep Politics


I Grails avevano dato il meglio di se stessi nell'ep Take Refuge in Clean Living (2008). E lo avevano fatto sintetizzando in soli cinque brani quanto espletato dagli inizi di carriera in dischi affascinanti (e spesso incompiuti) come Burden of Hope (2003), Redlight (2004), Burning Off Impurities (2007) ed i tre volumi di Black Tar Prophecies (2006). Doomsdayer's Holyday (2008) era stato un ulteriore passo in avanti; l'esperienza di Black Tar Prophecies vol. 4 (Self-Hypnosis resta uno degli apici compositivi della band di Portland) ha invece condotto a questo nuovo gioiello, Deep Politics (Temporary Residence Limited, 2011).
I Grails sono una bande à part. Se The Cinematic Orchestra interpreta l'ossessione della psichedelia cinematica come ribaltamento di prospettiva (prendi una colonna sonora, la destrutturi con l'elettronica e la ripassi a suon di soul e jazz), i Grails elaborano la materia così come uscita dal genio creativo dei grandi compositori per il cinema. Immaginate Ennio Morricone, Bruno Nicolai, Armando Trovajoli e Piero Piccioni alle prese con un ensemble acido e sfrontato. Che ha vissuto lo splendore degli anni 60, la creatività esplosiva dei 70, il riflusso degli 80, la nuova ondata di exploitation e nichilismo dei 90 e l'approccio strumentale e post dei 2000.


Dalle ariose aperture di Future Primitive all'oscurità di All the Colors of the Dark è un brivido immediato: come Sergio Martino e le iniziazioni esoteriche di Edwige Fenech. Il tutto con una perizia strumentale invidiabile ed i consueti arrangiamenti struggenti. Corridors of Power attraversa l'elettronica gentile e vellutata per lanciare la sinfonia morriconiana della title track, una vera e propria apoteosi, delizia per cuore e cervello. All'impasto strumentale generatore di tale avvincente maelström contribuiscono ulteriori, imponenti tasselli. Il piano sinuoso di Daughters of Bilitis. L'approccio ironico di Almost Grew My Hair (David Crosby che fa a cazzotti con Terry Riley in uno spaghetti western). Il climax emotivo di I Led Three Lives (il culmine in un crescendo pinkfloydiano da pelle d'oca). Il finale toccante di Deep Snow, avvio acustico che si scioglie in aperture acido sinfoniche sbalorditive (è qui che emerge in modo evidente la collaborazione con il compositore Timba Harris).
Metti una sera a cena con i Grails? I giorni del cielo si apriranno e grazie a loro anche noi, per un attimo, potremo diventare Intoccabili.



mercoledì 27 aprile 2011

Cinematic music for cinematic people (Part II): Alexander Tucker - Dorwytch


Alcuni l'hanno definito doom chamber-pop. Altri minimalist folk. Resta soltanto una certezza: Alexander Tucker è uno dei geni della contemporary music. Lo conferma il nuovo album Dorwytch, il primo edito da Thrill Jockey. Abbandonati il finger-picking estremo e la vena sperimentale degli esordi, da Old Fog (2005) a Furrowed Bow (2006) fino ai progetti Jackie O Motherfucker e Ginnungagap, Tucker ha costruito tassello dopo tassello un favoloso universo sonoro. Che ha trovato in Portal (2008) il suo capolavoro. Maggiore inclinazione alla melodia, apertura al folk pastorale, ampie dosi di psichedelia liquida e oscura. La vena drone è passata al side project Imbogodom, nel quale esplorare in compagnia di Daniel Beban gli orizzonti della dissezione sonora operata a suo tempo da artisti come Terry Riley e Steve Reich (obbligatorio l'ascolto di The Metallic Year, 2010, sempre su Thrill Jockey).


In Dorwytch i tempi si dilatano. Alexander Tucker riparte dal bellissimo ep Grey Onion e come con la Decomposed Orchestra ci consegna 14 canzoni che sembrano suonate da un ricco ensemble. Vocals sognanti, chitarre delicate e sinuose, uso di effetti elettronici e qualche accenno ritmico sono la pasta che fa da collante alle composizioni, mai così ammalianti. Pura scrittura cinematografica, un film lungo una vita. Un tempo di scrittura durato tre anni e che vede collaborare Paul May alle percussioni, l'amico Duke Garwood, il cantautore Jess Bryant ed il polistrumentista e produttore Daniel O'Sullivan (Guapo, Æthenor, Miracles, Ulver).


Si può suddividere Dorwytch in quattro grandi tronconi. I primi tre brani riprendono lì dove aveva lasciato la Decomposed Orchestra e sono un inizio prodigioso. Tre piccoli capolavori, dominati dalle splendide armonie di Matter. Riflessioni metafisiche, trascendenza (in)organica, ritorno ad una quotidianità a tratti dolorosa. La visione folk psicotropa di Michelangelo Antonioni alle prese con la fantascienza distopica. Hose e Gods Creature sono folk puro, che fa pensare ad uno strano miscuglio tra Curved Air e David Crosby, ribaltato dalla psych sintetica di Half Vast. Pearl Relics (per inciso, una delle canzoni più commoventi degli ultimi anni) riapre il sipario sull'acid folk da cipolla grigia e ci prepara al magnetico, dolente blues di Atomized e Skeletor Blues. Altra pausa strumentale (Dark Rift / Black Road) e ci si avvia verso il gran finale, nel quale dominano l'epica da glockenspiel di Sill e il trip rurale di Jamie. Il miagolio di un gatto ed il piano di Craters pongono Dorwytch nell'alveo di quel dischi da ascoltare senza alcun pregiudizio. Soltanto con la mente aperta e disposta ad assorbire la sostenza organica dei sogni.

Organic matter growing instead of lives...

martedì 5 aprile 2011

Cinematic music for cinematic people: Earth - Angels of Darkness, Demons of Light


Cinque perle nere che causano in chi le coglie emozione e immenso pathos. Sono le cinque canzoni che componogo il primo dei due capitoli di Angels of Darkness, Demons of Light (Southern Lord, 2011), nuovo magnum opus degli Earth, assurti con gli ultimi tre lavori alla carica di menestrelli della polverosa, cinematica, sempre più inquietante contemporaneità. Perché se vivere oggi è difficile, lo è ancora di più pensando al futuro. Da qui giunge la necessità di produrre musica non volendo parlare solo a se stessi, bensì al cuore di chi si pone all'ascolto. E medita sulla forza emotiva dei passaggi strumentali, sull'essenzialità delle linee tracciate dalla chitarra di Dylan Carlson, sulla complicità creata dalle ritmiche lente e pastose di Adrienne Davies (batteria) e Karl Blau (basso), sugli inserti di cello magici e al tempo stesso inquietanti di Lori Goldston.
Un album dalla purezza sconvolgente, di una linearità cristallina e tersa. Un disco che si pone come ideale prosecuzione del viaggio intrapreso a partire da Hex: or Printing in the Infernal Method (2005) e proseguito con sapienza e brillantezza in Hibernaculum (2007) e The Bees Made Honey in the Lion's Skull (2008). La prima parte di Angels of Darkness, Demons of Light è epitome e superamento critico di questa ricerca.


Inevitabile pensare a Jim Jarmusch, Johnny Depp e Neil Young che in Dead Man (1995) si incrociano sul finire dell'Ottocento nelle sinistre e desolate lande di Machine. Tuttavia qui c'è molto di più. Quello che è stato definito da più parti come minimalistic doom è in realtà psichedelia folk nel senso ampio del termine: chitarre rarefatte, tensioni acide che imbevono il cuore, sperimentalismo ultracorporeo, delle rovine rumorose dalle quali si emergere puntando verso una nuova transizione. È come una sposa che si spoglia delle distorsioni per regalarsi al piano di Lamonte Young. Dove cielo e inferno si sfiorano e si toccano. «Riff sciolti nel tempo», quanta verità.
Quando la linea di chitarra di Old Black diventa wah-wah è pura estasi. I passi notturni di Father Midnight sono rarefatti e cinematici; la stasi avvolgente di Descent to the Zenith scatena calde lacrime; i canyon che Hell's Winter materializza sono proiezioni mentali così vibranti da essere reali, concrete. I venti minuti conclusivi della title track sono il compendio paradisiaco di un gruppo che compone uno dei brani doom più naturali e antiteorici degli ultimi tempi.
Sono passati 20 anni da Extra-Capsular Extraction, 15 da Phase 3: Thrones and Dominions. E gli Earth compiono un ulteriore passo in avanti. Sempre più verso la perfezione.
Un disco che tutti gli amanti della buona musica e del buon cinema devono possedere nella propria collezione.


Per saperne di più: www.thronesanddominions.com
Photo credits: Sarah Barrick

venerdì 18 marzo 2011

Da Berlusconi a Helmut Kohl: achtung, biografie non autorizzate!


Speciale sulle biografie politiche non autorizzate. Su Café Babel - The European Magazine (rivista europea di attualità, politica e analisi in un'Europa che cambia), da Silvio Forever a La conquête.

Da Berlusconi a Helmut Kohl: achtung, biografia non autorizzata!

giovedì 17 marzo 2011

150, la gallina canta... E noi credevamo


Ampio servizio su cinema e Risorgimento, su Café Babel - The European Magazine (rivista europea di attualità, politica e analisi in un'Europa che cambia).

Gli eroi del Risorgimento al cinema: ci son voluti 150 anni!

martedì 8 marzo 2011

I'm a loser baby, so why don't you kill me?


Luca e Paolo sono due bravi ragazzi. Due persone perbene, si sarebbe detto una volta. Li incontri alla fermata del bus in una zona disastrata di Roma, dal nome che evoca piante aromatiche, quartiere lontano dal centro – ormai sempre più inesistente. Avevi incrociato i loro sguardi un attimo prima, seduti l’uno accanto all’altro. Il luogo? Un ufficio improvvisato, messo su in quattro e quattr’otto. Offerta di lavoro, contatto telefonico, colloquio fissato. Appuntamento alle 16, secondo piano. Ti apre la porta una bella ragazza, tirata a lucido. Bassina, tuttavia con i tacchi vertiginosi si nota poco. Dalla radio arrivano le note di Sweet Child O’Mine, alla voce fastidiosa di Axl non ci fai più caso, ti lasci trascinare dalla chitarra di Slash e pensi che vorresti avere anche tu un sorriso smagliante e un cielo terso da ricordare. Poco male, il tempo scorre, l’attività inutile della ragazza al “front office” pure. Giacca & cravatta, cioccolatino d’ordinanza, solito lavoro da agente, corso di formazione & provvigioni. Insomma, quel che ci si sente dire è la solita solfa. Telefoni alla tua ragazza e sei alla fermata del bus. È lì che ritrovi Luca e Paolo. È lì che inizi a farne la conoscenza. Prima tempestato di domande, poi affascinato e inquietato dai loro racconti.


Vengono dal profondo Sud, Luca e Paolo. Hanno preso la macchina e una stanza in albergo per una settimana. Li attendono sei giorni intensi e ininterrotti di colloqui. Hanno dalla loro numerose esperienze, non sono brutti, sporchi e con l’anello al naso – come li figurano molte persone del “ricco e opulento” Nord. Venendo a Roma col navigatore capita che in una strada prima a senso unico, ora ci sia un divieto d’accesso. Mica sono tutti dipendenti Atac. Così devi arrivare alla Stazione Termini e invece ti ritrovi sulla Trionfale. Cose che capitano. Niente rispetto alla mancanza di rispetto e di equilibrio. Nella vita e nel lavoro. Luca è stato per diverso tempo in una fabbrica del Nord, la Padania onesta che paga le tasse e produce. Operaio in una media azienda. Buono stipendio in busta paga, assicurazione, malattia, contributi, ferie pagate, buoni pasto, alloggio e rimborso spese per i viaggi nei periodi di festa. Mai avrebbe pensato che nel giro di sei mesi un luogo così chiudesse. Da giugno è a spasso. Come Paolo. Geometra, iscritto all’albo da dieci anni. Ha uno studio privato nella cittadina del profondo Sud, il Meridione che se ne infischia e spreca. Nell’ultimo anno non ha quasi mai lavorato, i costi per il mantenimento dell’attività hanno superato i ricavi. Eccoli allora, nella loro disgrazia. Che è anche la tua disgrazia. Ti congedi alla fermata della metro e vedi lo sguardo di Luca perso oltre il finestrino. Scendi e ripensi alle sue parole: «E pensare che c’è gente che dice “Che palle, domani è lunedì, devo andare a lavorare”… Ce l’avessi io sti problemi!»

Viene in mente Adriana in Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli. Basta sostituire fascino, vacuità e arrivismo ad una sana, naturale voglia di affermare se stessi. Peccato che allora era il 1965, e “andava tutto bene”.
Abbassate il tricolore, alzate bandiera bianca. Tra chi ti tratta mediamente, chi si fa burle(sque) di te e professioni del cazzo, è proprio dura. Altro che anno della tigre e anno del coniglio, 2010 e 2011 sono proprio anni di merda.

martedì 22 febbraio 2011

Di uomini e lupi. Old Fangs


A volte dieci minuti bastano più di tante ore. Di tante immagini, di tanti suoni, di tante parole. Leggi Old Fangs e pensi ai Black Mountain. Non in questo caso. Leggi Old Fangs e vedi il cortometraggio animato di Adrien Merigeau. Presentato al Sundance Film Festival 2010, è una delizia per il cuore e per gli occhi. La vicenda è tanto semplice quanto illuminante: un giovane lupo trova in se stesso il coraggio per affrontare il proprio passato, suo padre. Un lupo immenso e oscuro che non vede da quando era bambino. I toni sono quelli della favola, i temi e i tempi sorprendono per l’aderenza naturista ed etica. La sacralità dei legami (persi) e il filo dei ricordi, il tempo che passa e fa mutare prospettiva su luoghi, sentimenti e persone. La vita scivola via come la cenere di una sigaretta mai fumata fino in fondo. Calde lacrime che restano sospese in uno spazio chiuso, asfissiante proprio come il tempo che scorre. E proprio ai rapporti tra persone si pensa guardando Old Fangs. Il cortometraggio è stato realizzato in collaborazione con Alan Holly e con il supporto della Irish Animation Arm Cartoon Saloon. Le musiche sono opera dei genitori di Merigeau.
…And out come the wolves.

mercoledì 16 febbraio 2011

«Voglio che il sole mi dia il benvenuto». Lo sceicco di Castellaneta


Incontenibile Giuseppe Sansonna. Dopo le sotterranee melodie di A perdifiato (2007, dedicato alla figura di Michele Lacerenza, storico compositore dell’assolo di tromba di Per un pugno di dollari di Sergio Leone) e lo spregiudicato ritratto a zona di Zemanlandia (2009, il profeta del pallone Zdenek Zeman come non lo avete mai visto), torna alla carica con Lo sceicco di Castellaneta. Chiusura del cerchio di un processo che ribalta il Meridione e lo porta ad essere protagonista assoluto di un intero immaginario. Prima la musica, poi il calcio, in questo caso il cinema e il divismo. Come in una fantasmagorica epica leoniana, il documentario di Giuseppe Sansonna scandaglia uno dei pochi, veri miti del Novecento: Rodolfo Valentino. E lo fa ripartendo da dove tutto ebbe inizio, Castellaneta.
Provincia di Taranto, terra bruciata dal sole e illuminata dal mare. Grandi canyon e paesaggi della mente che si aprono come voragini per un sogno tanto vicino quanto distante nelle possibilità, «uno scenario western prima che Hollywood inventasse il West». Le diaboliche mascalzonate adolescenziali, il retaggio avventuroso del brigantaggio, i toni kitsch e perversi del cattolicesimo meridionale. Tutto serve a plasmare la figura eccentrica e affascinante che ne forgiò il mito. Un misto di malinconia e tormento, frivolezza e seduzione, che incenerisce imperfezioni e particolarità (lo strabismo di Venere, i matrimoni falliti, la stimolante creazione intellettuale che ne ipotizza una sorta di precursore ante litteram del Neorealismo) grazie ad uno sguardo magnetico.


In parallelo all’ascesa del divo Valentino, la via che sprofonda verso il baratro folle di Antonio N., professione matto del paese. Che rivive pellicola per pellicola, sequenza per sequenza, L’aquila nera, Sangue e arena, Il figlio dello sceicco, I quattro cavalieri dell’apocalisse. Le spelonche carsiche diventano brumosa steppa, Versailles muta forma e appare spiaggia dove mangiare seppie crude annaffiate di birra, il vecchio frantoio si trasforma in alcova di piacere e seduzione. Tutto comincia con i tributi che il Dopoguerra scudocrociato dedica a Rudy, a partire dalla statua dell’«iconoclasta in pectore» Luigi Gheno: autore di una scultura orrenda, uno sceicco pop dagli occhi svuotati e assenti. Viene definito come il grande otre che contiene l’olio, il dono più prezioso. Un mostro «ustionato dall’altoforno spietato di Hollywood». Gualtiero Jacopetti ne approfitta e nel 1962 apre Mondo cane con un tango irrefrenabile e le immagini dell’inaugurazione di quest’opera che fanno circolare una galleria di freaks grotteschi e compiaciuti. Impomatati e languidi proprio come Rodolfo, per questo ancor più incredibili.


Numerose le testimonianze che emergono dal sottobosco di Castellaneta. Spicca la lucida, sbalorditiva schiettezza di Maria Rosaria Ranaldi, 97enne benzinaia del paese. Il biker Pasquale dà interpretazione cromata e rombante del mito. Cosimo Fungoso, Presidente dell’Associazione Internazionale Arte e Cultura Rodolfo Valentino, si fa promotore di un’idea folle e visionaria che invitiamo a scoprire nella visione. Completano il quadro un uso sapiente del bianco e nero nelle ricostruzioni labirintiche di Antonio e le suggestive musiche morriconiane di Pippo Foglianese. Una ricognizione brillante e quanto mai attuale su divismo, sogni e desideri, aspirazioni e fallimenti. La contrapposizione tra chi «si erge fallico» e chi esibisce ambiguità ed intelligenza è, nell’anno di (dis)grazia 2011, quanto mai attuale.

venerdì 11 febbraio 2011

They’re coming for you, Uxbal. Biutiful


Un’ombra minacciosa si aggira per le ramblas di Barcellona. È quella di Uxbal, protagonista di Biutiful. Nel film di Alejandro González Iñárritu, il primo senza Guillermo Arriaga a dettare i tempi della sceneggiatura, il personaggio interpretato da Javier Bardem riempie della propria ingombrante presenza quasi ogni singola inquadratura. Padre di due bambini di cui si occupa al posto della moglie, una sorta di mutante bipolare, traffica in uomini e topi nel tumultuoso caos catalano. Nonostante abbia il potere di comunicare con i morti ed aprire loro le porte dell’hereafter, scopre di avere un tumore e comincia a temere per il futuro dei suoi figli.


Non sembra, eppure Biutiful è uno zombie movie. Per vari motivi. Innanzitutto perché Uxbal è già morto. E parla con i morti. Da cadavere ritorna. Si aggira per strada barcollante e dubbioso, divora i pasti con i modi bruschi del bisogno innato e animalesco, educa al rigore e al risparmio. Non accetta intromissioni nel privato. È morto. E scopre che per essere abbattuto non c’è bisogno di un colpo in testa. Basta una pisciata rosso sangue. L’horror(e) che travolge, perché Iñárritu spia dal buco della serratura il globalismo, cercando in tutti i modi di nutrire un comune senso di colpa. Per cosa, non si capisce bene. Trionfa un certo compiacimento. Si affastellano temi su temi, in maniera a dir poco confusa: l’economia che si allarga senza diritti e protezioni, lo sfruttamento, venditori africani e operai cinesi, omosessualità ad occhi a mandorla, schizofrenia e violenza domestica, polizia corrotta, incesti famigliari, e chi più ne ha più ne metta. Il tutto senza quasi mai sporcarsi le mani, lontano dalla gente comune che vorrebbe sbattere sullo schermo. Tanto meglio la buona e ricca borghesia, quella americana che andava in vacanza in Marocco o quella giapponese che trafficava in armi. Semba di assistere ad un confuso quadro metropolitano, come se Amir Naderi invece di Kafka avesse scelto Roberto Saviano come riferimento culturale.


Dunque cosa resta? Risposta semplice: una regia che aiutata da montaggio, suoni e musiche, pur abusando di camera a mano, si concede agli spazi, ad alcuni abbaglianti campi lunghi, ad improvvise aperture visionarie (il dialogo con i bambini morti; i cinesi asfissiati e le larve che si agitano sul soffitto); il volto pietrificato e fisso di Javier Bardem; la meravigliosa accoppiata di naso e tette di Maricel Álvarez; squarci suggestivi di una Natura che appare e scompare al cospetto di una Barcellona sporca, affascinante e notturna. Poco, purtroppo. Istanza sociale e redenzione privata potevano essere più biutiful.

mercoledì 2 febbraio 2011

OFF TOPIC Le allodole del sesso: la visione della figa da lontano. Sempre vostro Cicco Peppe


Ricevo lo sfogo dell’amico e sodale Giuseppe De Cicco e pubblico.

La visione della figa da lontano, citazione tributo omaggio agli Elii. Ma anche consapevolezza del fatto che usando la magica parola “figa” si hanno molte più chance di essere ascoltato, qui come in qualsiasi altra parte del mondo “civile”. Perché in questo momento, in questo paese, sulla bocca di chiunque, umana o virtuale che sia, non si scappa dal binomio figa-potere. È talmente sulla bocca di tutti, si parla talmente tanto di old man enjoying huge bombs and young pussy... O di horny old man is fucking a gorgeus young girl, da rimpiangere quasi quelle belle vecchie bigotte riserve mentali sul sesso e i suoi derivati, quando il “cazzo” era tabù. Non erano belli i tabù?


Tuttavia, al di là dei "cazzi", torniamo alle considerazioni politiche inattuali. Ci stiamo concentrando sui vizi del re nudo. Noi, i mezzi di informazione, addirittura la magistratura, l’unico potere italiano che ha fatto e fa tremare i palazzi del potere. Perché l’Italia è l’Italia… Non esiste corrispettivo nel resto del mondo e anche le “rivoluzioni” si fanno dall’alto, non certo dal basso. La magistratura tra tanto torbido, tra tanta merda che galleggia («E se teniamo la bocca bene aperta forse riusciremo ad ingoiarla tutta!»), ha deciso di giocare la sua partita fondamentale sullo scandalo sessuale. Notare bene che ai tempi della Prima Repubblica la partita fondamentale si giocò sulla corruzione e sul finanziamento illecito; fenomeni emersi nel 1992 ma praticati e conosciuti da sempre, regole non scritte di un sistema quarantennale, scandalo usato come mannaia al momento giusto, quando il “vecchio” doveva fare spazio al “nuovo” perché il sistema era al collasso e i partiti non servivano più. Il muro era caduto ed era diventato la lapide del comunismo. Se ai tempi la corruzione era sufficiente a far tremare il sistema dalle fondamenta, oggi si è scelta – da sottolineare la parola scelta – la mannaia dello scandalo sessuale. Forse sarà anche vero che “a ognuno il suo” ma se per cambiare si ha bisogno di fare salotto sulle perversioni di Cesare e del Fido Emilio… Beh, la tristezza è totale nella miseria del momento.


L’Italia è un paradiso abitato da diavoli. O forse sarebbe più corretto dire che l’Italia è un PARADOSSO abitato da PIPOLI [per chi non conoscesse la parola “pipolo” vedere vocabolario avellinese]. La situazione economica è disastrosa, con prospettive di crescita pari a zero e un mercato del lavoro che fa spavento. Non ci vuole un grande economista per capirlo. Una notte che non sembra mai finire: fuga di cervelli, cementificazione selvaggia, piccoli e grandi scandali che spuntano da un tappeto che non riesce più a nascondere tutta la sua monnezza. Si parla delle scopate di Berlusconi ma non si organizzano palinsesti televisivi sulla scopate di Santa Romana Chiesa, sui vizi degli adepti più sinceri e sulle coperture dei vertici. Chi in Italia avrebbe la “forza e curaggio” [per chi non conoscesse la “Forza e Curaggio” vedere vocabolario beneventano] di inadgare sui vizi dei vertici di Santa e Romana?


Nelle scuole si insegna ancora che abbiamo uno stato fatto di potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Per onestà intellettuale bisognerebbe dire che in Italia per precise scelte politiche dettate dell’instabilità di una guerra mondiale finita e di una guerra fredda alle porte, si è scelto di suddividere il potere al fine del mantenimento dello status quo tra Chiesa-Poteri Economici più o meno occulti e Stato, che a sua volta è fatto di esecutivo, legislativo, giudiziario e mafioso. Si lascia in pasto ai cervelli più pigri l’idea della lotta all’antistato... Come gli americani all’inizio degli anni novanta davano in pasto all’opinione pubblica l’idea della lotta al sistema mondiale della droga.
Lo stato adopera il suo braccio armato, le mafie, quando è messo alle strette, quando pezzi di scomode verità potrebbero emergere, riscrivere la storia ed essere insegnate, studiate, ricordate e di cui qualcuno potrebbe servirsi per chiedere conto quando i conti non tornano. Per poi dire ai cervellini troppo piccoli, ai cervellini troppo pigri, ai cervellini tropo veloci [100 punti a chi coglie la citazione Ndr]: «le mafie hanno fatto questo, noi puniremo le mafie». Ecco allora i Riina e i Ciancimino. Sarebbe simpatico domandare ad un uomo di mafia (un uomo di mafia col cervello, un Pippo Calò o un Bernardo Provenzano): perché vi umiliate così, perché siete diventati i servi dei servi dello stato? I soldi e il potere che ne deriva, quel pezzettino di torta a cui siete stati ammessi per gentile concessione del padrone, varrà mai la dignità che avete perso? Non siete stufi di essere i trofei dei vari Maroni che nel momento del bisogno vengono a prendervi e vi sacrificano a comando? Perché accontentarvi dell’elemosina quando si può rubare direttamente in chiesa?


Ad intermittenza si parla del problema rifiuti a Napoli. Giustamente. Senza però chiedere conto ai pezzi dello stato che tramite le mafie hanno costruito autostrade di spazzatura in Africa per aiutare lo smaltimento di multinazionali di mezzo mondo. Grandi imprese eternamente in debito con lo stato italiano ed il suo braccio armato. Ce lo insegna l’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi, vicenda su cui lo stato, appunto lo stato, tace. Da anni. Allo stesso modo in pochi hanno aperto spiragli di chiarezza sulla strage di Piazza della Loggia, il primo atto della stategia della tensione. Dopo 36 anni tutti assolti. Quasi 300 morti e 800 feriti per 15 anni passati alle cronache come anni di piombo. Se per tanti ragazzi i libri di storia sono troppo noiosi perché spesso chi conosce i fatti non è detto che li sappia anche raccontare, basta guardare Il Divo di Paolo Sorrentino. Nel novembre 2010 i giudici della Corte d’assise hanno concluso il processo con assoluta indeterminatezza e nessuna condanna. Non si è sentito alcun Fini o Di Pietro o Napolitano parlare di questa sentenza. Pochi giornali hanno affrontato seriamente l’argomento; la stessa magistratura ha fatto poco.


Siamo sazi di sentir parlare di Berlusconi e di sesso e di quella che è l’attuale situazione italiana. Si dimentica che potere e sesso squallido esistono da sempre, anche prima di Berlusconi e sicuramente anche dopo. In Italia ma non solo. Sono un binomio vincente. La parola 'attuale' con la parola 'politica italiana' non ha senso perché in Italia la giornata di ieri è da sempre quella di oggi e sarà sempre quella di domani. Perché per citare le parole di un amico «il belpaese vive in un eterno presente».
Chiedo a me stesso, alla città e al mondo che quando la punta dell’iceberg verrò spezzata e cadrà, e cadendo andrà tristemente alla deriva fino a scomparire lentamente; quando la finiremo di parlare, indignarci e bestemmiare sulle perversioni di un uomo malato [a voler precisare, il punto più alto – o meglio, meno squallido – tra tutto il vociare che si sta facendo sul sesso e sul sesso di Silvio, è la lettera della moglie pubblicata da Repubblica: oltre a dire tutto, Veronica Lario lo dice con grande forza e umana dignità, e forse ci saremmo dovuti fermare a quello...]; quando tutto questo passerà, avrete la forza di concentrarvi sul resto e di chiedere conto di tutto. Pretendendo ciò che vi spetta, consapevoli che il berlusconismo non cadrà con la sua testa come il fascismo in Italia non è finito legato ai piedi del duce a Piazzale Loreto.
Lo scrive una persona pigra oltre che brutta, a cui dell’Italia non fotte un cazzo e che non farà un cazzo per l’Italia. Una persona stufa di vedere tutti diventare allodole ed abbocare allo specchietto.

Un ringraziamento a John Carpenter, Sarah Lucas, i cani vogliosi, Malleus Rock Art Lab, le targhe americane e agitazioni per i contributi audiovisivi.

lunedì 31 gennaio 2011

El pozo. Il Messico secondo Guillermo Arriaga


C’era una volta il Messico di Sam Peckinpah, doloroso e orgoglioso, sporco e tenace. Più vero del vero. E c’era il Messico di Luis Buñuel, quello feroce del grande teschio che partoriva figli dell’inganno e della violenza. In pochi hanno viaggiato nel Messico di Emilio “El Indio” Fernández. Uno che nel 1946 vinceva la Palma d’oro al Festival di Cannes con un film sconvolgente come Maria Candelaria (1943). Per tanti è stato il mefistofelico Mapache nel Mucchio selvaggio (The Wild Buch, 1969) o la figura mitologica del fazendero El Jefe nel capolavoro Voglio la testa di Garcia (Bring Me the Head of Alfredo Garcia, 1974). Come dargli torto…



Da qualche anno è Guillermo Arriaga a infuocare gli animi dei cinefili con Quetzalcoatl nel sangue. Prima in qualità di sceneggiatore di fiducia di Alejandro González Iñárritu, poi come regista (The Burning Plain, 2008). Per Iñárritu rimangono impressi nella mente i meccanismi ad orologeria, le geometrie universali, le realtà frammentate e dominate dal “caos lineare” di Amores perros (2000) e Babel (2006). Meno il pasticciato ed estetizzante compiacimento di 21 grammi (21 Grams, 2003). Il capolavoro è la sceneggiatura scritta in punta di penna per l’esordio alla regia di Tommy Lee Jones Le tre sepolture (The Three Burials of Melquiades Estrada, 2005), uno dei film più belli degli ultimi dieci o quindici anni. Sintetizza tutto al meglio il solito Valerio Caprara: «La forza allucinatoria dei corruschi paesaggi, l’incisiva essenzialità delle recitazioni e degli episodi di contrappunto e l’equilibrio con cui è giocato l’elemento grottesco (i colloqui di carceriere e carcerato con le fattezze del povero messicano in disfacimento) conferiscono all’opera prima di Tommy Lee Jones il nitore dei western di ultima generazione, rimpiante pietre miliari di un cinema che non voleva parlare solo a se stesso».
Prossima sceneggiatura sarà quella di The Tiger, previsto per il 2012 e tratto da “The Tiger: A True Story of Vengeance and Survival” di John Vaillant. Per la regia di Darren Aronofsky, protagonista Brad Pitt. C’è da tremare. Nell’attesa, è essenziale una piccola perla uscita stavolta in punta di macchina da presa. El pozo. Il pozzo. Cortometraggio che è parte del progetto 13 formas de amar a mi México, 13 corti commissionati a registi e sceneggiatori da TV Azteca. Un racconto duro, drammatico, polveroso. Allevatori di capre e contadini, banditi a cavallo e bambini. Il deserto del Coahuila nel 1914 fa da sfondo a questa vicenda di amore e coraggio. Della Rivoluzione importa poco o nulla. Della sofferenza di Quique siamo complici. Oltre che vittime e responsabili.

martedì 18 gennaio 2011

Fu così che Dio sbatté contro un muro. Big Bang Big Boom


È un periodo che si fa un gran parlare di Banksy. Merito delle sue folli, illuminanti provocazioni. E anche di uffici stampa sempre più efficaci. Detto questo, per meglio comprendere le logiche e il senso delle incursioni dello street artist inglese, ci vengono in soccorso il bel libro di Sabina de Gregori Banksy il terrorista dell’arte (Castelvecchi Editore, 2010) e il documentario attribuito allo stesso Banksy Exit Through the Gift Shop (2010), presentato al Sundance Film Festival del 2010.


Per una volta è doveroso abbandonare l’esterofilia e tornare in Italia. Niente Puffi o Na’vi, per tingersi basta Blu. Street artist bolognese che usa un metodo tanto “facile” quanto sconvolgente: applicare l’animazione in stop-motion al graffito. Un lavoro che si dipana in modo parallelo tra carta, muri e schermi, dagli schizzi alle pareti. Schizofrenia del pensiero e della rappresentazione, pennelli, rulli e carrellate veloci che si trasformano in bocche da fuoco fenomenali.
A partire dal suggestivo ed emblematico Muto fino alla splendida collaborazione con David Ellis di Combo. Una forma di comunicazione e rappresentazione visiva “altra”, quasi aliena perché fin troppo specchio deforme (uniforme?) della realtà. Unico mezzo per scendere in strada e urlare rabbia e ragione, da Varsavia a Los Angeles, da Milano a Mosca, da Barcelona a New York, da Berlino a Lisbona. Ultimo in ordine di tempo – presentato al Festival di Clermont-Ferrand – Big Bang Big Boom. Ovvero come sia nata la vita e quale sia la sua evoluzione. Seguendo flussi, tubi, granchi, esseri voraci, cumuli, uova che si schiudono e una fine ineluttabile, impossibile non pensare all’animazione sperimentale di un genio come Zbigniew Rybczyński. Anno di grazia 1975: quanto ancora stupisce il sublime Oh, I Can’t Stop! (Oj! Nie moge sie zatrzymaci!).
Ipertrofia della visione che non riesce mai a fermarsi. Per andare avanti ancora e ancora ancora ancora ancora ancora ancora ancora ancora ancora…